10 anni, 6 aprile 2009. L’Aquila, città museo a cielo aperto, venne devastata da un terremoto, unitamente alle frazioni e ai Comuni del bacino sismico. Sono giunto nel capoluogo dopo tre ore circa superando non pochi ostacoli. Ho visto l’inferno con i miei occhi, increduli di una distruzione non comprensibile nemmeno con miglia di fotografie in sequenza. Ho, con il mio operatore di ripresa constatato come ha operato al meglio, la Protezione civile, e come si andava organizzando con colonne interminabili, anche quella delle Regioni limitrofe e nazionale. Lamenti di persona sepolte dalle macerie, con gli aquilani che cercavano, dove gli aiuti non erano ancora giunti, scavare con le mani inesperte, spostando pietre e mattoni, con le mani nude. Abbiamo visto gente smarrita che piangeva disperata e che non sapeva cosa fare, come comportarsi o guardare, le loro case distrutte, sedute sulle macerie antistanti. Eppure l’attività della Protezione Civile era ben visibile, così come lo era quella frenetica, dentro e fuori l’ospedale civile fatto a pezzi, da un terremoto, che lo aveva reso inagibile. Nessuno dei sanitari e del personale sanitario è fuggito, in quella devastazione non c’è stato un morto, nemmeno chi era in rianimazione. Abbiamo constatato come l’allora manager, Roberto Marzetti, assumeva decisioni, in tempo reale, man mano che i sanitari gli rappresentavano gli enormi problemi da risolvere. E mentre si salvavano vite, già nella tarda mattina, giungevano i primi morti. Lo ripeto era l’inferno che si era trasferito all’Aquila alle 3,32 del 6 aprile di 10 anni fa. L’elogio va rivolto, che che ne dica qualcuno, al commissario Bertolaso, con il quale ho avuto uno scontro durissimo: lui voleva lavorare protetto, da una schiera di pretoriani, ma io avevo necessità di un visto per utilizzare quello che non è mai stato un aeroporto. Avevamo ragioni tutti e alla fine riuscii, tra tante urla, ad ottenere il visto del ” capo”, senza il quale nulla era possibile. Questo è il passato di un giorno terribile. L’ordine dell’allora Premier Berlusconi, uomo certamente molto discutibile, era:” Che nessuno dorma sotto le stelle”. Certo è vera l’affermazione che la ricostruzione non c’è stata così come era stata preventivata, che i paesi sono ancora con le macerie in bella vista, che il centro dell’Aquila langue ed ha perduto, circa 3 mila abitanti, che hanno fatto scelte diverse. E’ vero anche che la ricostruzione privata va avanti mentre quella pubblica, in parte è bloccata. Un terremoto che ha squassato non solo case, strade e servizi ma anche l’anima delle persone che avevano perso parenti, amici e luoghi dove avevano, vissuto generazioni. Ci fu chi rise al telefono per un sisma che avrebbe arricchito i falchi pronti alla ricostruzione. Ma ci furono amministratori che amavano tanto, anzi troppo, telecamere e interviste. E ci fu una Procura troppo loquace con un ” faremo giustizia” una frase di troppo: in quel momento esplosiva. Il popolo voleva ottenere giustizia immediata che non è possibile dove ci sono leggi, indagini, processi e tre gradi di giudizio. Non pochi, hanno soffiato sul fuoco e, non pochi, come viene affermato sottovoce, hanno buttato giù case appena lesionate, e riparabili con poco denaro, grazie ad accordi:”… buttiamo giù tutto e da una casa in pietrame ne avrai una in cemento armato. Una casa che non crollerà più anche se accadesse un altro terremoto”. Si è spinto a ricostruire tutto, senza pensare alla diminuzione dei residenti, ad incentivare i commerci e l’insediamento di unità produttive capaci di dare lavoro e ” incollare” sul territorio, chi aveva un reddito ed avrebbe alimentato, il commercio locale. Certo L’Aquila piange ancora, una mancata totale ricostruzione ed i suoi 309 morti, ma c’è chi dovrebbe fare un’esame di coscienza ed ammettere che molto tempo è stato perso, con il denaro dello Stato a disposizione grazie una lentezza burocratica da far impazzire anche l’imprenditore più paziente.